L’informazione di oggi è una di quelle che ho scoperto troppo tardi e che mi ha fatta sentire leggermente ignorante (per averla ignorata).
Una di quelle informazioni talmente basilari che nessuno osa dirla a voce alta perché altri o altre l’avranno certamente già detta. O che si ascolta con superficialità, non cogliendone la potenza.
Magari eri in bagno mentre l’hanno detta oppure ti eri appisolato, anche questo capita.
Comunque, non tutte le pratiche di consapevolezza sono uguali e convenzionalmente ne esistono di (mille mila) tre tipi:
Pratiche di consapevolezza focalizzata (le così dette focus attention con un oggetto di attenzione specifico)
Pratiche di consapevolezza aperta (le così dette open awareness in cui non ci si concentra su qualcosa in particolare ma si pone attenzione in modo curioso e non giudicante a quello che si palesa, dentro e fuori da noi, senza scegliere)
Pratiche di autocompassione (le così dette self-compassion in cui si pratica per convertire il pensiero giudicante in un pensiero spazioso e compassionevole)
Ho semplificato davvero tanto (forse troppo).
Comunque in base a chi te le spiega, queste pratiche assumono delle sfumature diverse e si intersecano, come è giusto che sia.
Per diverso tempo (ed è stata questa la mia ignoranza) avevo dimenticato le pratiche di autocompassione. Le avevo praticate (sporadicamente) ma non le avevo distinte dalle altre, non le avevo comprese e non avevo colto la loro tempra.
Per molto tempo ci ero passata accanto pensando che non esistessero. Stolta.
Questo mese per il mondo (suppongo il nostro mondo ma non ne sono sicura) è il World Mindful Eating Month: il mese dell’alimentazione consapevole.
Ogni giorno di questo mese il TCME (The Center for Mindful Eating) ha deciso di affrontare un capitolo dell’argomento alimentazione consapevole o più in generale dell’argomento consapevolezza.
Il WMEM Day 13 ha rispolverato il mio imbarazzo, entrando a gamba tesa nel discorso della compassione (e più in generale della gentilezza e della sospensione del giudizio).
La consapevolezza si basa su quattro pilastri: intenzione, accettazione, consapevolezza non giudicante e compassione. Spesso negli insegnamenti di consapevolezza, la compassione viene insegnata come qualcosa di separato.
Durante lo sviluppo della nostra pratica di ascolto e consapevolezza, possiamo notare che i pensieri nella nostra testa non sono molto gentili. Possono essere severi, critici e molto giudicanti.
Poiché il dietare si basa su regole, restrizioni e una mentalità tutto o nulla, iniziare un viaggio di alimentazione consapevole può farci sentire smarriti.
È qui che diventa fondamentale aggiungere l'autocompassione al miscuglio. Mentre stai lentamente abbandonando qualsiasi regola alimentare e ti muovi nella direzione della curiosità, non trascurare la gentilezza.
In questo viaggio, non esiste la perfezione, solo infinite opportunità di apprendimento.
Dove potresti aggiungere della gentilezza nella tua esperienza con il cibo?
Quindi, non solo le pratiche di (auto)compassione esistono come pratiche di consapevolezza, ma le pratiche di consapevolezza non possono (dovrebbero) esistere senza le pratiche di (auto)compassione.
Perché se sono consapevole ma, raccogliendo ciò che c’é nel qui ed ora, lo ricopro di insulti non andrò lontano. Aggiungerò solo dolore.
Se invece avrò parole balsamiche nei confronti di ciò che resta, imparerò a prendermene cura, a sciogliere i nodi e a pettinare le ferite.
Come per tutte le altre pratiche anche la pratica di consapevolezza ha bisogno di allenamento.
Per cambiare il modo in cui (ci) si (auto)parla bisogna allenarsi, perché spesso la narrazione si è incistata su argomentazioni poco gentili, quando non insulti e (auto)svilimento.
Può capitare che nelle pratiche di compassione si ripetano delle frasi, riempiendole di significato, indirizzandole a qualcuno, a se stesse o a al proprio corpo.
Possa tu essere a tuo agio
Possa tu essere nutrito
Possa tu essere apprezzato
O ancora
Il mio corpo sta facendo del suo meglio.
Il mio corpo non vuole che io soffra.
Oppure
Come puoi riformulare ciò che hai pensato perché sia più largo e meno spigoloso?
Quanta forza per dire queste parole, a se stessi e alle altre persone.
Io ho fatto una fatica boia, lo ammetto.
Creare spazio per la gentilezza può sembrare una bazzecola, ma è una sfida travestiva da bazzecola.
Replico la domanda che mi è stata posta, così da porla anche a te, ufficialmente.
Dove puoi essere più gentile nel tuo rapporto con l’alimentazione?
Dove puoi essere più gentile1 quando guardi il tuo corpo?
Dove puoi essere più gentile quando guardi il corpo delle altre persone?
Hai spazio per un frammento di compassione da incastrare nel monumento dei (pre)giudizi e delle autocritiche?
Secondo me hai spazio.
Ma dove?
Lì.
Scusa, dove?
Lì.
Sara
Gli appartenenti alla stessa gens avevano dei reciproci doveri di assistenza e difesa, oltre che il diritto di successione ereditaria in mancanza di parenti prossimi - e condividevano i luoghi di sepoltura. Così l’essere gentili implicava un comportamento più fraterno rispetto a quello tenuto con estranei di altre gentes.
Dà una sensazione strana pensare che oggi, a una valanga di secoli di distanza dal declino e dalla scomparsa delle gentes, per esprimere la qualità più pura di rispetto e cura benevola, genuina, continuiamo a rifarci ai rapporti interni che le caratterizzavano - meno vincolati, interessati e stretti dei rapporti famigliari come li intendiamo oggi, e maggiormente consapevoli della nobiltà che l’essere gentile richiede.