Ogni tanto capita che si vedano o che si ascoltino, senza che lo si fosse preventivato o che lo si volesse fare, delle scene che ti si incastrano nella memoria e che ciclicamente ritorneranno per farti male quanto ti hanno fatto male nell’edizione originale, non sottotitolata. Sono momenti quasi inutili, che in altri casi avresti potuto dimenticare, ma non quello, non lì, non in quel momento. Ti seguiranno e, variabilmente, ti indurranno a pensare o a modificare i tuoi comportamenti futuri.
Ecco il mio
Estate, caldo decente e sole pacato del pomeriggio che diventa sera.
Ero parcheggiata nel cortile della GAMeC (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo) aspettando non ricordo cosa, probabilmente di consumare la mia pausa e tornare dentro a lavorare nella biglietteria del museo. Quella sera ci sarebbe stato un evento e quindi ero circondata da gente che costruiva, gente che curiosava e bambini che scalavano opere d’arte come se fossero alberi, sotto l’occhio distratto dei genitori.
Come è giusto che sia, una bambina, scelta a caso, collassa di ginocchia sul cemento del cortile. Esperienza formativa che abbiamo fatto tutti a tempo debito. Parte uno di quei pianti disperati e catartici a bocca aperta e occhi chiusi. La ferita deve essere resa pubblica così che la nonna e la mamma possano accorrere, cosa che fanno con poco interesse (erano sicuramente più interessate al loro precedente argomento di conversazione).
Trascinato il corpo ferito della bambina sulla panchina nonostante cammini già da sola e abbia, in parte, già abbandonato i singhiozzi in favore di un interesse quasi chirurgico della semi-ferita, (la mamma e) la nonna si adoperano per cancellare l’avvenimento e spegnere il rumore infamante della disperazione infantile con il seguente dialogo:
Ti fa male? (la nonna)
Sì (la bambina piagnucolante)
Vuoi un gelato così ti passa? (la nonna)
No (la bambina)
Adesso passa tutto, sicura che non vuoi il gelato? (la nonna, massaggiando la ferita e ripulendola dal ghiaietto e dalla polvere)
Non lo voglio (la bambina)
Silenzio (tutti, compresa la ferita)
Vuoi tornare a giocare? (la nonna)
No (la bambina intenta a diventare una chirurga)
Adesso la nonna ti compra il gelato così passa tutto (la nonna compra il gelato e lo parcheggia tra la bambina e la sua ferita)
Mangialo (la nonna)
Non lo voglio (la bambina)
Adesso l’ho comprato e lo mangi (la nonna, ricattatoria)
Altrimenti lo mangio io (la mamma, mangiandone un boccone e dichiarando che è molto buono e che lo finirà tutto lei)
Lo mangio io, lo mangio (la bambina sconfitta e distratta)
Allora stavamo dicendo… (la mamma alla nonna)
La mia pausa finisce, il sipario si chiude. Sono arrabbiata, confusa e perplessa. Adesso come allora.
Ci ho provato in tutti i modi a liberarmi di questo proiettile incastrato nei miei ricordi ma non ci riesco.
Se qualcuno (compresa la bambina chirurga) è a conoscenza di come io possa liberarmene, me lo dica.
Il dopo
La pratica di oggi è una pratica sottomarino, che dovrete tenere nascosta sott’acqua per sfoderarla urgentemente quando arriverà il momento.
Dovrà maturare in voi perché raramente è innata, ma è dannatamente possibile, almeno nella teoria. Nella pratica può rivelarsi vigorosamente insidiosa, perché si nasconde.
Eccola: cercate di non utilizzare il cibo per sedare/annientare le emozioni degli altri (o le vostre). In particolare dei bambini.
Lasciate che le emozioni arrivino e si manifestino e poi passino (come un temporale, come una marea) senza infilare sulla pistola del gelato (o chi per lui) come silenziatore per abbatterle.
Lasciate che le emozioni possano apparire e scomparire nella foresta come cervi, godendovi il momento quasi magico (di solito ci sono lame di luce traslucida tutt’attorno), senza sparare nessun colpo dal fucile. Lasciate scappare il cervo-emozione, quando si accorge di voi, e poi tornate alla vostra quotidianità con un incontro da raccontare, su cui pensare. Lasciate che il cervo-ferita (una ferita qualunque, non le ferite che arrivano all’osso) venga visto, venga risparmiato, venga ammirato.
Se ad un bambino o ad un adulto, quando soffre, offrirò del cibo come risposta (e non i rinomati bacini sul punto che duole, metodo che io uso ancora adesso da adulta, perché la pressione su un punto doloroso riesce fisicamente a stoppare la salita dello stimolo doloroso al cervello), sto facendo due cose potenzialmente problematiche:
Gli insegno che ciò che lo sconvolge deve essere subito riparato perché è qualcosa che non sarebbe dovuto in nessun caso accadere e le emozioni negative devono essere subito sostituite da emozioni positive, perché le prime non si devono avere, mentre le seconde devono esserci, in abbondanza. E questo è un messaggio irreale e fuorviante. Un messaggio sintetico e allucinato.
Gli insegno che quando è in una situazione spiacevole o stressante può (e il potere ci mette poco ad essere imparato come se fosse un dovere inconsapevole, una risposta automatica) usare del cibo per uscirne. E lo butterò nel circolo vizioso dell’utilizzare il cibo per fronteggiare, anzi rifuggire, le sue emozioni tumultuose, invece di metodi più efficaci e personali.
Sono stata sleale. Questa pratica ve l’ho scaricata addosso senza ulteriori commenti. Ma me ne sono subito pentita, perché ho paura che fraintendiate, perché ho paura di accollarvi troppe responsabilità.
Vorrei che da questa pratica non scaturisse subito un comportamento (fai questo) ma che instillasse una critica dei vostri comportamenti automatici nei confronti del cibo (Mi capita forse di farlo? Quando? Perché? Con chi?).
Vi invito a chiedervi?
Ho mai usato il cibo per distrarre le emozioni di qualcuno o le mie?
Uso il cibo come rimedio per quando sono stressato o ansioso o distratto o preoccupato?
Ho mai usato il cibo (come nel racconto iniziale) come risposta surrogata alla necessità di accudimento che mi veniva fatta?
E, non generalizzate quello che sto dicendo.
Avete avuto una giornata merdosa e la sera volete mangiare qualcosa capace di risanarvi? Fatelo, con gusto, con godimento. Non è di questo che stiamo parlando.
Siete preoccupati per qualcosa e tutte le volte che siete in ansia iniziate a ingerire cose, probabilmente a caso, poco consapevoli che ci sarebbero altri modi di gestire quell’ansia? Provate a non farlo. Chiamate qualcuno, sfogatevi parlando con persone o cose (vale anche parlare con/a se stess_), uscite a pestare l’asfalto con furore in quella che tutti chiamano camminata, fate un disegno di cerchi concentrici talmente eloquenti da bucare il foglio, ascoltatevi respirare e concentratevi solo su quello per tornare al corpo e ridimensionare l’invadenza della mente, ballate canzoni hardcore1 sciogliendo i muscoli che fino a prima vi tenevano in ostaggio, chiedetevi se siete in ansia e per cosa e se questo qualcosa ha una soluzione. Esempi stupidi, trovate il vostro.
Tentate di non abusare del cibo come antidoto, per non viziare la relazione che avete con esso.
E tentate di non offrirlo come soluzione agli altri, soprattutto quando non l’hanno chiesto o l’hanno rifiutato.
Questo racconto è stato necessario per introdurre un tema portante dell’alimentazione consapevole. Il mangiare, appunto, con consapevolezza. Il mangiare sapendo cosa sto mangiando e perché.
Oggi sento di avervi probabilmente confusi, perché sono rimasta sul vago, perché ho detto molto. Se riuscite a riemergere da questa confusione potete rispondere a questa email o scrivere a corpiarrosto@gmail.com
Se non riuscite a riemergere, accantonate serenamente questo argomento.
Sara
Nelle puntate precedenti (pratica): descrivere il cibo (aggettivi), 4’33’’.
This is Hardcore #TiH è un progetto del 2012 particolarmente interessante. A diversi musicisti o produttori di musica hardcore è stato chiesto di creare una canzone partendo dalla stessa sequenza di quattro note. Spetta ad ogni artista dare la propria versione di questo suono e crearne una personale interpretazione. Diverse versioni dello stesso stimolo, originali e personali.
Così lo spiegano: Come se ti dessero un foglio bianco e ognuno disegnasse una cosa diversa. Puoi trovare quello che ti disegna una cosa molto oscura, quello che ti disegna una cosa molto tecnica. Quello che ti lascia il foglio in bianco e quello che te lo straccia. La stessa cosa con la musica.
Un auspicio per cercare e trovare la propria strada partendo da luoghi non così distanti.